• Riflessioni enoiche…

Tra naturale,biodinamico e biologico … inventiamoci un pò di gioia: Sandro Sangiorgi docet

Si, il vino genera pathos: non lo si può negare. Altrimenti possibile che si spenda così tanto a parlare di un qualcosa che genera un valore mondiale complessivo (e stiamo parlando di tutto il reparto nel suo complesso in tutto il mondo) che equivale solo a 1/3 del fatturato di una singola azienda, tipo Apple, un nome a caso?  

Se i solfiti aggiunti generano mal di testa, tutto ciò non è nulla a confronto con l’emicrania acuta che l’addentrarsi in determinate tematiche può causare; tipo quella sui vini naturali con annessi e connessi. Me la cerco, lo so. E’ come chi esagera col bere. Ma fortuna vuole, ho alla fine trovato un rimedio.

Ecco che allora per non intensificare il dolore ho pensato di identificare solo teste e code di quello che la mia mente ha inconsciamente elaborato, attraverso un processo di distillazione, visto che se parliamo troppo di vinificazione si finisce per prendersi a botte. Una distillazione che spesso dovrebbe ripetersi più volte (e non solo nel caso in questione) per riuscire a selezionare il il cuore. Prendendo il tutto con le pinze, piuttosto che troppo sul serio. Teste, code e cuore in un corpo solo: il vino “naturale”.

Mi piacerebbe poter partire da un presupposto. Quello che siamo tutti d’accordo sul fatto che la sfida dei vini del genere di cui sopra è sempre e comunque di arrivare a ottenere qualcosa di “buono” (nel senso di “positivo” dato che sul buono in quanto tale c’è del molto da ridire o, meglio ancora, sarebbe forse più  opportuno non usarlo affatto quest’aggettivo) senza forzatura della terra e tramite il dosaggio di elementi naturali. E fin qua siamo tutti amici, polemica a parte s’intende. Teniamoci per mano anche quando affermiamo che i vini appartenenti a queste famiglie ammettono un uso ristretto di pesticidi, prevedendone solo alcuni quali i composti del rame e gli oli minerali. Che i lieviti devono essere indigeni e la solforosa ridotta all’osso. Che i biologici e i biodinamici sono disciplinati da delle leggi e quest’ultimi in aggiunta ai primi debbono utilizzare determinati preparati: quelli da spruzzo e quelli da cumulo. Tra i primi il cornoletame, ad esempio; niente più che il letame di una vacca che ha mangiato solo erba (e che non sia trattata) con il quale si riempiono corni di vacche lattifere interrati fino alla primavera successiva. Una volta estratto il composto si associa a dei preparati da cumulo (ortica, camomilla, corteccia di quercia etc.) e si ottiene … un fertilizzante. Pensare che io ero fissata con le fasi lunari, l’allineamento dei pianeti e le questioni esoteriche. Colpa di Nicolas Joly, il produttore di vino biodinamico più rappresentativo (la Coulée de Serrant). Un guru, se vogliamo, della biodinamica; con una forte vocazione agli aspetti mistici ed astrologici, diffusore del pensiero di Rudolf Steiner. Probabilmente l’aver lavorato per anni nella finanza newyorkese prima del suo riavvicinamento alla terra l’ha fatto … trascendere un po’ (addentratevi nel suo libro “Il vino tra cielo e terra” – pg.51 – poi mi direte).

Stelle e luna non interferiscono quindi con la certificazione biodinamica. Ma con la relativa filosofia decisamente si. E pare anche che quest’ultima riscuota dei discreti successi, dal momento che tra i migliori 100 vini al mondo molti sembrano proprio essere biodinamici. Tipo? Romanee Conti; Comtes Lafon, Zind Humbrech, dei nomi a caso. Vini sempre più presenti nella carta dei ristoranti stellati alla ricerca dell’anticonvenzionale con purezza. Ma che sia davvero merito del cornoletame e del cornosilice (composto quest’ultimo da dei bellissimi cristalli di quarzo macinati anche loro messi in corni di vacca)? O forse più delle pratiche in vigna, rispettose del territorio, oltre che della particolare vocazione del microclima in cui si opera e che in quanto tale si preserva, valorizzando il tutto con un approccio di tipo biodinamico? Ecco che siamo nel cuore. Produttori che combinano con estrema sensibilità n-fattori (tanto in vigna quanto in cantina) per raggiungere risultati eccellenti. La filosofia sottostante è preponderante ma mai invadente. Eppure sono vini naturali . Quei vini che, in senso lato, non necessariamente devono anche essere biologici o dinamici ma seguono un protocollo ti tipo etico; il solito protocollo sprovvisto di timbri o certificazioni ma che ben delinea un approccio che meglio non si può definire se non …”naturalista”, per l’appunto.

Biodinamici e naturali ma con sapienza dunque. Oppure, ideologisti e naturali, con sapienza: pensiamo a Gravner e alle sue anfore o a Radikon e al suo “Oslavje” bianco. Sono dei miti che perseguono un filone ben preciso ma che rimangono sempre nel cuore; da non confondersi quindi con le teste … e men che meno con le code.

Le code che inseguono la moda; o il trend del momento. Come segno di distinzione commerciale in un mercato sempre più fitto di proposte, dove il ritorno alle origini risuona quasi come una … dimostrazione d’affetto (ne siamo proprio convinti)? C’è del marketing insomma; come negarlo. Come lo dimostra la scritta in grassetto in etichetta. E con lui un’improvvisa esplosione di rifermentati in bottiglia e prodotti sur lie tra la gamma in assortimento. Il torbido sembra tirare. Ma tira di qua, tira di là, cerchiamo di non sconfinare. Perché il confine tra le code ed il cuore di coloro che si rifanno a metodologie di produzione di una volta (il prosecco sui lieviti come lo facevano i nostri nonni) con un approccio purista e non commerciale è molto labile. Diamo i meriti a chi se li merita insomma. E non solo ai guru biodinamici o agli idealisti perfetti come Romanee Conti, da un lato e Gravner, dall’altro. Ma anche al piccolo produttore di prosecco sur lie come Dio comanda, che da sempre l’ha fatto così.

Infine ci sono le teste (che vengono prima ma arrivano dopo). Teste dure e teste calde. I battitori liberi ed orgogliosi. I sessantottini. I non interventisti in assoluto. Non è una moda, è una filosofia di vita, se vuoi un po’ anarchica. Lunghe macerazioni che restituiscono un colore aranciato (orange wines?); ossidazioni spinte; vini che sostano sui lieviti quindi torbidi. Naturalisti fino al midollo. E come in tutti gli ambiti di questa maledetta vita, quando ci si ostina si possono alle volte ottenere dei risultati brillanti … Quanto in alcuni casi dei traguardi deludenti, dove non è la struttura tannica o la pienezza di bocca il ricordo preponderante di quanto assaggiato. Forse è proprio tra le teste che andrebbero fatti i maggiori “distinguo”. Ma senz’altro non è operazione facile e decisamente soggettiva.

Così come non lo è quella di distinguere se è un vino è buono/cattivo dal momento che non se ne può astrarre la natura dal suo rapporto con noi. E’ questo quanto ci racconta Sandro Sangiorgi che, con il suo libro L’invenzione della gioia, ci ha messo nelle mani un rimedio per sfuggire dal caos della polemica. Parlando di naturalità, restituzione del territorio, salubrità e digeribilità risulta chiara la propensione di Sandro. Che non rinuncia però ad una diplomatica interpretazione del vino come evento. Il vino lo si incontra e non ci può essere rivelazione senza qualcuno che lo interpreta. Un evento è un dono e uno dono non è tale se non ha un “per noi”. Che dobbiamo “accoglierlo”, senza protocolli di valutazione ma adottando un approccio olistico. Lasciandoci andare ad una libera associazione consapevoli della soggettività dei sensi. Così come sacrificando quest’ultimi per raggiungere una purezza di visione che l’attaccamento fanatico ai sensi, agli interessi e alle passioni personali farebbe venir meno. Per poi riabbandonare quello sguardo algido, dalla prosa scientifica ritornare a quella dell’arte,riagganciare il nostro spirito per poter finalmente dire “Questo vino, si, mi emoziona”.

 

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