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Tra le cose per cui vale la pena di vivere … un incontro a cena casuale, con Woody Allen

Lo so, sto per raccontarvi qualche cosa che molti stentano a crederla. Ma lo faccio lo stesso perché ho già acceso un’assicurazione a  garanzia di un vitalizio che mi salverà da qualsiasi rovinosa perdita di reputazione. La storia è questa: ho conosciuto, Woody Allen in un modo del tutto singolare e, sfruttando la teatralità che ho imparato dai catanesi, sono riuscito persino ad invitarlo a cena. Sì proprio così. E lui ha accettato. Correva l’anno di grazia 1979 e mi trovavo  al Central Park di Manhattan, disteso e stremato su di una panchina al termine dell’allenamento in preparazione alla maratona di New York. Mi si avvicinò davanti a me con l’aria di chi mi volesse interrogare: ma non aveva nel suo sguardo la fretta di chi pretendesse subito delle risposte. Capivo  che stesse lasciandomi il tempo  affinché il mio respiro si facesse regolare. D’improvviso da quell’espressione esplose un sentimento di stupore come di colui che si ritrova davanti dopo molti anni un compagno d’infanzia: “Hello Isaac!!! old school friend, a great friend how many years have passed? Mi chiamavo, e ancor mi chiamo, da domani non so, Stefano, non ho mai vissuto a New York e quello che mi sembrava un sosia del divo americano, si sta rivelando ancora più autentico di Woody Allen, proprio lui, in carne e ossa,  un mio idolo un personaggio in cui riconosco me stesso e nel suo carattere riconosco il mio e quelli  di tanti suoi personaggi. In fondo mi sono sempre riconosciuto in quel proverbio ebraico che dice: “Cade di schiena e si rompe il naso”. Si ritengo di potermi definire un maldestro irrecuperabile, un inciampatore per natura, uno che ruzzola in tanti guai senza volerlo. Ma che alla fine ne esce sempre grazie ad una volontà paradossalmente enorme.

Giocando di anticipo sono riuscito a star con lui oltre mezz’ora. Ma ora veniva il bello. Come trattenerlo? Ok, mi dico, vediamo se riuscirò a fare il vero catanese, devo recitare la parte di Isaac, devo fingermi Isaac suo compagno di scuola. Così comincio con una distrazione, il ritorno forzato in Italia, la carriera di mio padre, mancato marines negli States e onorato carabiniere a Gibellina, in Sicilia; dove tutti credevano vi albergasse  il cuore della mafia, ma quando mai!, quella mafia, lì, mai vista e appena sentita, che mio padre da vincente ha combattuto. Vincente perché non vi erano tracce di malavita ma solo impronte di secolare storia di una Sicilia antica, nobilissima e vittoriosa. Una Sicilia centro del mondo mediterraneo, crocevia di genti e popoli, culla di tre straordinarie culture, quella greca quella araba e quella normanna-sveva, senza contare i contributi di poeti, storici, scienziati, artisti. Woody mi ha udito per tutto il tempo, incantato! Senza fiatare, sereno, fresco nonostante lo avessi investito con una lunga serie di balle affascinanti e pure attendibili. Che sia rimasto affascinato da questo incontro insospettato e singolare lo confermò il fatto che, dinnanzi al mio invito di rivederci  a casa mia la sera stessa, accettò senza esitazione.

Abitavo da tre settimane in un appartamento sulla West Side al trentesimo piano di uno dei tantissimi grattacieli di Manhattan con ampie vetrate che liberavano una vista meravigliosa sul quartiere dei Queens. Un alloggio arredato in modo semplice ma con una cucina grandissima che Filiberto, l’amico che me l’aveva affittata, la usava con una particolare passione; nelle vene di Filiberto il sangue veicolava qualche traccia blu dei suoi avi e, in un angolo del soggiorno, anche l’arredamento rispecchiava lo stile e la nobiltà della sua famiglia. Un bel tavolo da tè in radica di noce, addossato ad una servant piena di stoviglie di un certo pregio, contribuiva ad offrire un tono degno alla serata che stava preparandosi. Era la cena della mia vita. Pensai a quel menu da grand gourmet con ossessiva meticolosità. Sentivo frenarmi solo una certa paura di trasgredire le regole “kasher” della cucina ebraica. Ma lui le osserva? mi chiesi. Chissà! In bocca al lupo! mi augurai. Quel menu si addossava una sola missione: quella di  rappresentare una memorabile celebrazione della cucina siciliana; un menu che da quella sera, al suo ricordo, ricollegasse Woody Allen alla Sicilia attraverso la cucina, le sue tradizioni, i suoi vini e non più alla mafia. La fortuna mi aiutò a trovare, in un piccolo mercato di “little Italy”, gli ingredienti e tutto ciò di cui avevo bisogno, compreso una “casa del pesce” la cui improbabile insegna recitava “Jonio’s fishes” pesce dello Ionio. Potevo fidarmi? Sì, mi assicurò Filiberto con una telefonata.

Allen arrivò puntuale e saltando le formalità dei saluti guadagnò subito il guardaroba. Lo vidi, mentre si toglieva l’impermeabile, farfugliare qualcosa, una lamentela mi parve, su qualche problema che il montaggio del suo ultimo film “Manhattan” gli stava procurando. Ci sedemmo a tavola senza tanti convenevoli e la mia prima preoccupazione fu quella di mantenere a debita distanza il fantasma Isaac. Gli descrissi subito l’antipasto per stemperargli lo stupore che la cromaticità del piatto gli aveva generato.  Era un soufflé ben gonfio, di asparagi e caciotta ragusana. Gli raccontai, fingendo di ben saperlo, come fosse facile preparare un buon soufflé solo se vi si osservassero alcuni principi basilari: l’albume ben montato, il forno alla giusta temperatura, la tempestiva perizia di servirlo appena pronto. Mentre ero certo di incassare una scontata citazione del film “Sabrina” in cui la protagonista si cimenta senza successo nella preparazione di un soufflé, lui imprevedibile com’è, mi spiazza chiedendomi notizie sulla giovane produzione letteraria in Italia.

La delicatezza di quell’antipasto non meritava divulgazioni culturali se non gastronomiche. Ma questa mia concezione si scontrava con l’essenza dei suoi interessi che bramavano per nuove conoscenze artistiche e letterarie. Dirottai sul vino e l’abbinamento al piatto: un “Brut classico millesimato Barone Scammacca” matrimonio perfetto col salmone di contorno. Solo dopo l’ultimo sorso, mi affrettai a sparecchiare per servire il primo: raviolini di pesce.

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Li confezionai a forma di mezza luna e contenevano un ripieno di pesce spada, prima bollito con gli odori e poi frullato e insaporito con il salmoriglio, una salsa tipica siciliana che condisce molte preparazioni a base di pesce. Anche il condimento fu di una semplicità monacale. Avevo tagliato con forma e volume rigorosamente uguali, e a cubetti, un bel pomodoro, una zucchina e del pesce spada. Sbollentati e soffritti si presentavano, con un aspetto invitante, su di un piatto in cui, a raggiera, dominava una corona di fiori di zucchina fritti. Notai di nuovo un grande stupore in Woody Allen dinnanzi a quella  portata: chiuse gli occhi per concentrarsi e, intrecciando le dita, portò le mani all’altezza del naso come se stesse pregando. Faceva in modo che il profumo, esalando, si fermasse sotto le narici. Ora, anche l’atmosfera attorno al tavolo si era ovattata di un qualcosa di mistico; ne aveva contribuito a esaltarla, la musica che l’impianto soffusamente diffondeva. Brani di Lully, Couperin, Gluck, Massenet, Fall, Mozart. Non c’erano melodie che non gli ricordassero episodi piacevoli della sua vita artistica. L’acme delle sensazioni si registrò allo sfumare dei violini nella suite delle “Scene pittoriques” di Massenet e, in dissolvenza, il suono di un clarinetto, che sembrava venir da lontano, intonò le note dell’adagio del concerto K 622 di Mozart. Gli ricordò l’invito, costretto a declinare, di Bernstein che lo voleva come primo clarino, nella Boston Simphony  orchestra.

Raccontò questi aneddoti, Woody, stupendosi di come una cena potesse stimolargli tante sensazioni. La musica, le ricette, i profumi di Sicilia. Finimmo il primo e quasi non ci accorgemmo del tempo trascorso, né dei profumi di zagara e ginestra che emanava quell’ “Etna doc bianco superiore” del “Barone di Villagrande” il vino che aveva annaffiato questo buon piatto. Anche per la seconda portata mi ero ispirato alle fragranze di Sicilia: ricciola con funghi porcini e finocchietto selvatico.

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Una delizia che rievoca i sapori della pasta alla palermitana se il porcino è ben dosato e non prevarica il profumo del mare. Qui ho abbinato un “Bianco di Valguarnera” del Duca di Salaparuta, un vino dal color giallo oro, massima espressione dell’inzolia, un vitigno che in Sicilia ha trovato la sua terra di adozione. “Ho accettato l’invito convinto di trovare spaghetti e pizza: ho scoperto invece un nuovo “Ristorante Paradiso”. Una bella lezione di cucina mediterranea” è il complimento di Allen.

Anche il dessert fu un omaggio alla mia terra, semifreddo alla vaniglia, con salsa e gelatina al mandarino. Frutti della mia Sicilia e salsa profumata con acqua di fiori d’arancio. Di Sicilia.

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Il tutto attorniato da biscotti di mandorla di Noto, dalla mia Sicilia, servito su di un piatto di ceramica bianca. L’alternanza dei colori bianco e giallo, crearono un effetto suggestivo. Lo consumò senza fretta, con gesti lenti, come a voler prolungare nel suo palato il piacere e la delizia di quei sapori. Con lo sguardo fisso nel vuoto o forse dentro lo spiraglio di un tempo passato ed ora ritrovato non più soltanto in quel dessert ma nei brani musicali, negli odori, nei suoni, nelle risonanze mentali della cena, come orchestrato nel proprio sé, nell’universo di conoscenza che infrange le barriere del tempo. Poi, infatti, allontanando quel piattino, si alzò di scatto e mi chiese dove fosse il telefono. “Scusami Isaac, devo contattare subito Susan Morse per chiederle di sospendere il montaggio del film “Manhattan” – mi riferì nervosamente. Corse a telefonare, spiegò tutto in pochi secondi, abbassò la cornetta senza salutare. Compose un altro numero: “E’ l’United artist? Mi passi per favore Charles Joffe, è il produttore” – mi informò. “Charles, scusami, ma dobbiamo girare di nuovo una scena del film… no, no, non sono impazzito. Solo trenta secondi, una sequenza velocissima. Quella del divano quando elenco le cose per cui valga la pena di vivere: “Groucho Marx, il giocatore di baseball Willy Mais, il secondo movimento della sinfonia Jupiter, Louis Armstrong quando suona “Potato head blus”, i film svedesi, l’educazione sentimentale di Flaubert, le pere e le mele di Cezanne… ecco qui voglio aggiungere: “le cene di Isaac…”. Una breve pausa poi continua: “…non importa chi sia Isaac, voglio aggiungerlo e basta, sì Isaac. Sì! le cene di Isaac…”.

Ancora secondi di un cupo silenzio, sinistro presagio di un esito negativo. E il rito del “brindisi” col calice di una “Malvasia delle Lipari”, di Maria Pantò, era ancora in attesa di entrare in scena pronto ad esaltare i profumi del dessert. “Le cene di Isaac” continua ma con il tono ormai sfiancato di una resa senza speranza. “Sì le cene di Isaac…”.

 Sentivo il petto riempirsi di un senso di dignità, di orgoglio. L’orgoglio di essere siciliano. Mi voltai per nascondere la commozione che i miei occhi lucidi stavano tradendo. Ancora un suo labile borbottio poi, tra l’eco di un rimuginante silenzio, abbassò la cornetta. Woody mi fissò negli occhi. Anche i suoi erano lucidi. E il tutto rendeva magica quell’atmosfera. Chiara, nell’aria, iniziava ad aleggiare qualcosa di incantato. Era sceso su di noi un alone felliniano. In cui campeggiava il manifesto della sua filosofia di vita. “…partecipare al sogno di un perfetto sognatore è la più grande soddisfazione di un artista!”.

Dopo questa memorabile cena, il sognatore si fece chiamare, e per sempre, Isaac. E non più Stefano, suo vero nome.  Fino a quando non conobbe… Maria Isabella.

E’ il racconto di …. Isaac, alias Alfonso Stefano Gurrera

2 commenti

  1. Cose per cui vale la pena vivere!

    Quando si percorre la strada della vita, nei lunghi tratti della fanciullezza e poi della gioventù, quando, s’intravedono i tornanti da scalare per arrivare in cima, queste domande sono chiuse dentro la scatola dei ricordi infiocchettata, con nastri colorati di arcobaleno.
    Quando arriviamo sulla vetta, come trofeo di vita, issiamo la bandiera che sventola accarezzata dalla brezza della prossima maturità.
    Godiamo di quel sole che splende illuminando la nostra vita e dopo l’euforia per la meta raggiunta, guardiamo giù, per scrutare l’altra parte di strada da percorrere.
    Una lunga discesa ammorbidita da dolci pendii, ci attende e quasi impauriti ci fermiamo un attimo, in tempo di riflettere! Lungo la discesa, piccoli spiazzi verdi ci accolgono quasi a invitarci a pensare. Le diverse visioni o sensazioni provate durante l’ascesa alla vetta, sono essenziali per la visione dello splendore di quella strada in discesa. C’è chi si abbatte per il troppo peso del fardello trasportato, c’è chi prova sollievo per la mancanza di quello zaino volutamente dimenticato in cima, sotto la bandiera che sempre sventola felice, al sole della vita.
    Fu così che, durante la mia discesa, in un momento di meritato riposo, incontrai Stefano. Lo ascoltavo curiosa di captare la sua essenza, lo leggevo per trovare, tra gli anfratti delle parole, la verità nel suo dire e nello scorrere del tempo, capì l’inutilità della mia fame di conoscere il suo trascorso.
    Stefano è colui che oggi è, colto, tenero e passionale.
    Basta leggerlo per amarlo!
    GiusBell

  2. Carissimo Isaac,

    un racconto incantato e sognante, un’esperienza che ti ringrazio di aver condiviso. La mia giornata inizia con un sorriso!
    Onorata che tua abbia fatto assaggiare i vini Barone di Villagrande ad un uomo di grande sensibilità come Woody Allen.

    Grazie!

    Barbara Liuzzo

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