• I ristoranti stellati Michelin

Alle Calandre è stato amore … a primo morso

Che bontà. Non abbiatene paura. Che bellezza. Non temiatela. Che emozioni. Non esitate. Prendete in mano l’agenda, risparmiate se ne siete propensi e … prenotate. Annotate. Sono certa che delusi non rimarrete: disposta a giocare la più bizzarra delle poste. Alle Calandre, il ristorante tristellato di Rubano, provincia di Padova, è tutto precisamente all’altezza. Di qualsiasi tipo di aspettativa, a partire dalle più esigenti: dall’accontentare all’estasiare, dal rendere sazi all’emozionare.  Ciò che conta è essere predisposti.

A degustare accostamenti di prodotti studiati in modo quasi maniacale e a sperimentare tecniche di cottura. Max è un genio su questo quindi se anche non le capite, fidatevi di lui. Ma soprattutto … siate inclini a giocare. Si, perché alle Calandre è tutto un gioco di tatto ed olfatto. Di luci, ombre e forme. A cominciare dall’arredo. Un’atmosfera sofisticata ma non laccata. Moderna ma calda. Tavoli in legno, senza tovaglie; con dei soffici gomitoli di lana vestiti da centrotavola; una luce studiata per esaltare le portate. Che alle volte si mangiano con le posate, altre volte con le mani (usate comunque le buone maniere ed addobbatevi per l’occasione; è il caso di dire che l’abito fa un po’ il monaco). E’ tutto stato pensato per creare continuità tra sala e cucina. Si è tutti “inconsapevolmente legati”. Si chiacchera, si ride, si scherza. Con Andrea Coppetta Calzavara, maître di sala.  Con il sommelier Matteo Bernardi. Con il resto della squadra. Con Max. Spesso presente tra i tavoli, al momento lontano da cooking show e conferenze stampa, lì con voi per condividere la materia proposta con fluidità e leggerezza.  “Liquidità significa che devi seguire la materia in un percorso dettato dalla natura”.

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E questo è un gran piacere per la clientela appassionata di uno stellato. C’è uno studio sull’armonia e l’accostamento che risulta così spontaneo da rimanerne disarmati. Da farne l’essenza del piacere a discapito della molecolarità. O nonostante la stessa, dato che la cucina di Max si allontana da questa tipologia. Da quanto inteso.

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Un piacere che scoprirete saltellando tra un piatto ed un altro ancora di uno dei menù che potrete scegliere con libero arbitrio; per intero o selezionando a piacimento 3, 4 o 5 pietanze. Il gioco si fa flessibile. C’è il Classico, che ripropone i piatti stella dello Chef, quali il cappuccino al nero di seppia ed il risotto alla polvere di liquirizia. Credetemi o meno ma io ancora me li ricordo nonostante la mia precedente visita risalga a 4 anni or sono. E poi ci sono i menù Max e Raf che si adattano alle stagioni. I figli di Erminio Alajmo e Rita Chimetto che si raccontano attraverso un percorso degustativo. Una pergamena arrotolata consegnatami sul finire della cena mi ricorda che io ho deciso di scegliere il Raf. Di Max mi è bastata la presenza, di Raf ne ho voluto cogliere l’essenza assaggiandolo tra una burrata di vongole ed una scarpetta di cipolla (occupato nella gestione degli n-ristoranti della famiglia* di fatto non più presente in sala). Fantasticando per qualche istante e nel mentre assaggiando dei cicchetti di straordinaria fattura, quali il cornetto croccante al parmigiano od il baccalà con chips di riso, ho pensato che sì, quella sera lì Raf faceva al caso mio. Me lo sono ribadita convinta, nonostante fossi offuscata dalla concentrazione di sapori già avvertita addentando un involucro croccante poco a poco trasformatosi in un morbido ripieno.

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*forse molti di voi non lo sanno ma Alajmo S.p.a. è un vera e propria società per azioni.

Ed è subito stato amore. Anche se non ci siamo conosciuti di persona. Da platonico ha assunto sostanza, tra una portata e l’altra senza arroganza. “Fu … il mare” ha aperto le danze, un gelato alla ventresca di tonno con una gelatina alla bottarga e caviale: un’esplosione di freschezza e sapore. E poi la scarpetta di cipolla, presentata con l’intenzione nascosta di intenerire il più duro degli animi. Tenerezza non è in fin dei conti passione tranquilla? Servita su di una vera e propria scarpetta di vetro realizzata dal maestro vetraio Lunardon (lo stesso che realizza i bicchieri per Gravner, com’è piccolo il mondo). All’interno fiori e foglie di borragine, agretti, asparagi, salsa di cipolla rossa e sorbetto di senape. Il laccio altro non è se non uno spaghetto Benedetto Cavalieri cotto nel forno a pressione. Non è tutto così giocoso?

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Non ricordo se prima o dopo o nel mentre di un pensiero è arrivata la burrata di vongole: un gusto di latte non incisivo, dato dalla pasta della mozzarella disidratata e farcita con cozze, granchio e gambero. Esplosiva ma non provocatoria, come nessuno dei piatti d’altro canto lo è stato.

Dei calamari di pasta con crudo di pesce e salsa ostrica dove la pasta è cotta al dentissimo per evitare il rilascio di amido. Dei torchiatini di lenticchie con asparagi, bottarga, gamberi crudi e salsa di nocciole dove la freschezza del pesce crudo si amalgama concettualmente con la crema di nocciole che fa da sottofondo.

E poi nel seguente ordine: la pasta al forno all’amatriciana. Finalmente posso usare il termine “decomposto”. Che in gergo non ufficiale ma ufficioso significa che gli elementi del tutto sono sparsi (non a caso) un po’ di qua ed un po’ di la.  Il rombo scottato con purè giallo di patate, spremuta di carote al cardamomo e polvere di olive nere, buono nel gusto ma forse non del tutto creativo, un gradino sotto in termini di aspettative (quanto meno le mie). Scusatemi è che sennò mi dicono che a me piace tutto.

E poi … ho perso la memoria. Sarà stato il vino? Una cantina che vanta più di mille etichette. Ce n’è per tutti i gusti e per tutte le età (l’età forse non c’entra ma suona così bene … ). Io ho optato per uno Champagne in precedenza assaggiato (di cui ho raccontato in questo articolo: Pierre Gerbais) forse per il timore di essere eccessivamente esposta a nuovi stimoli sensoriali? O forse, così è stato, semplicemente senza perchè.

Quindi? Del filetto senz’altro. C’erano assieme a lui anche delle rape rosse e della salsa all’uovo speziata. E la “gallustra”, la gallina da mangiare con le mani, possibilmente. Ma io lo carne l’ho guardata e non assaggiata questa volta perché sto diventando fastidiosamente avvezza al pesce e Max non mi ha fatto cambiare idea. O forse, più semplicemente, perché ero piena zeppa. Alla faccia di chi se ne va in giro dicendo che si esce con la fame. Anche loro mentono. Ma non sono simpatici.

E poi, dopotutto od in fin dei conti, c’è sempre un “pre-qualcosa” prima di qualcosa. E così lo è stato anche al momento del dolce. Con la pipa libre, un sorbetto da “tirare su”: un bicchierino fatto a forma di pipa che vi farà scordare il vostro “qui ed ora” in uno stellato. Vi ostinerete a risucchiarne il contenuto fino a produrre un suono imbarazzante e forzatamente controllato. Con il piacevole intermezzo della frutta marinata: un connubio di essenze, agrumi e spezie per pulire il palato prima del gioco al cioccolato.

“C’è troppa comunicazione falsa, interessata, che non penetra. Funziona invece un atteggiamento che va a toccare corde disinteressate. Quella è la vera comunicazione. Quando mia figlia Adele ha disegnato il ‘Gioco al cioccolato’ di quest’anno, era divertita. Dobbiamo avere lo stesso atteggiamento. Il vocalist non avrà mai la forza espressiva di un bambino, che quando urla, urla davvero. Non ha il filtro di pensieri che frenano”.

Come hai  ragione Max. Ed è per questo che io ti racconto. Ti descrivo. Semplicemente ti scrivo. Per urlare … senza perdere la voce.

4 commenti

  1. Francesco Mondelli

    A parte il crimine di rimandare indietro la gallina,da sottoscrivere in pieno tutto l’articolo ed in particolare la genialità degli Alajmo.Tanta troppa tecnica nonché grande e sofisticata comunicazione ci ritroviamo oggi nei piatti stellati che dopo anche una notevole esperienza viene spontaneo chiedersi se vale ancora la pena,visto i soldoni che bisogna mettere in preventivo,farsi prendere per i fondelli .Ad maiora e……complimenti per la sincerità dei suoi scritti non usuale a persone delle sua età ,ma purtroppo neppure comune in quelli della mia.FM.

  2. Sempre piacevole come non mai leggerti, in grado come sei di farmi vivere una cena a tre stelle anche dal divano di casa…quella scarpetta di cipolla…sarà che rimani colpito dai sapori della tua infanzia e memoria…ma…che dire…sembra sublime

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